Nel mondo della comunicazione e del marketing, si parla sempre più del cosiddetto “brand activism”, un modello di business che vede nell’impegno dell’impresa in cause sociali, politiche e ambientali il fattore determinante per i propri obiettivi economici.
Una definizione di brand activism
La definizione di brand activism secondo Kotler e Sarkar in uno dei primi testi dedicati a questo argomento (Brand activism. From purpose to action) è:
“la chiara volontà da parte dell’azienda di assumersi responsabilità sociali e di promuovere o impedire riforme al fine di partecipare al raggiungimento del bene comune.”
In altre parole, l’azienda non opera più come mero attore del mercato ma come promotore di processi di cambiamento, grazie al ruolo attivo assunto in iniziative e progetti per favorire il bene comune.
In questo senso, praticare brand activism significa passare da una prospettiva marketing-driven a una society-driven.
Dalla corporate social responsibility al brand activism
Di fatto, il brand activism si pone come “naturale evoluzione” dei programmi di corporate social responsibility (CSR). Se però questi ultimi si legano principalmente al rispetto di standard normativi o principi etici adottati su base volontaria, nel brand activism l’impegno dell’azienda ha come principale obiettivo il soddisfacimento delle esigenze e delle problematiche sociali, politiche e ambientali.
In questo senso si parla anche di corporate diplomacy per riferirsi alla priorità che ha assunto per le aziende il prendere una posizione, avendo compreso a monte quali sono le tematiche e le cause a cui tiene di più il pubblico di riferimento.
Se da un lato i brand non possono più permettersi di stare a guardare, dall’altro è però necessario tenere conto sempre di quelle che sono le colonne portanti del fare impresa e marketing: dall’importanza della brand identity, al rispetto dei valori e della storia aziendale, in un’ottica di programmazione strategica complessiva e non semplice moda passeggera.
Le diverse forme di brand activism
Sempre Kotler e Sarkar distinguono due diverse strategie di attivismo: regressivo e progressivo.
Il brand activism regressivo è tipico di quelle aziende che operano in settori cosiddetti controversi (come il tabacco, i fast food o il gioco d’azzardo) ottenendo di fatto benefici non coerenti con le proprie attività o i propri prodotti. Si parla a tal proposito anche di greenwashing, per intendere quelle attività che, nel tentativo di migliorare la brand reputation, generano di fatto un effetto boomerang controproducente.
Al contrario il brand activism progressivo favorisce miglioramenti reali alla collettività e i brand si fanno portavoce autentici di problemi e cause sociali, politiche e ambientali.
A livello teorico sono state individuate sei macro ambiti di brand activism, che corrispondono ai principali problemi verso cui le imprese mostrano il loro interesse:
- attivismo sociale, riguarda il grande campo delle questioni sociali e comunitarie, come il riconoscimento della comunità LGTBQ+ o la difesa delle donne
- attivismo ambientale, forse il più sviluppato, si impegna in temi legati all’ambiente, dall’emergenza climatica al consumo di plastica
- attivismo aziendale, relativo per esempio all’eliminazione del gender pay gap o al congedo parentale esteso anche ai neopapà
- attivismo giuridico, nell’ambito delle cause legali per esempio su immigrazione e inclusione
- attivismo politico, tra cui ricordiamo la campagna Nike contro la politica migratoria del governo Trump
- attivismo economico, include politiche salariali e fiscali
Gli effetti del brand activism
La domanda sorge spontanea: ma il brand activism funziona?
Stando alle abitudini dei consumatori si direbbe di si. Nel processo decisionale di acquisto di prodotti e servizi dei millenials e della Gen Z infatti incidono non solo fattori come qualità e prezzo, ma sempre più la possibilità di riconoscersi in valori di cui il brand si fa portatore.
Secondo una ricerca Novamont-Nielsen, poi, il 75% dei consumatori in Italia è disposto a pagare di più un prodotto, se ha la certezza che abbia un impatto ridotto sul pianeta dal punto di vista del packaging e della produzione.
Anche le aziende hanno provato a dare una risposta: per 7 PMI italiane su 10 gli investimenti apportati in sostenibilità hanno portato benefici in termini di fatturato (69%) e competitività (70%), oltre che di reputazione (82%) (fonte: Doxa Marketing Advice).
Se sei interessato al mondo del brand activism e vorresti sviluppare un’idea per la tua azienda, siamo pronti per metterci in ascolto: contattaci!